Mulino a forza animale o mola asinaria di tipo "pompeiano" o "romano" con macina a clessidra. Plinio (nat. hist. 18,107) afferma che a Roma non vi erano stati fornai (pistores) fino alla guerra contro Perseo, re di Macedonia (vinto dai Romani nel 168 a.C.) e che prima i Romani facevano il pane in casa, servendosi soprattutto dell'opera delle donne, come anche ai suoi tempi era abitudine presso moltissimi popoli. In sostanza la farina sufficiente per una famiglia di modesta grandezza era stata fino allora fornita dalle "macine rotatorie" a spinta umana, cioè dalle molae trusatiles.
Ma con il sorgere dei panifici e l'estendersi del latifondo, il bisogno di farina moltiplicò grandemente, per cui fu necessario ingrandire le macine e farle muovere con costanza da un'energia più robusta e possente di quella umana. Così si ricorse ben presto all'energia animale e in particolare a quella degli asini/e (anche se non mancarono impieghi di cavalli): si giunse pertanto nella prima metà del II secolo a.C. all'impiego di una nuova grande macina (già sperimentata in Grecia e nel mondo ellenistico soprattutto nel corso del III secolo a.C.) in cui un asino (asinus molarius) o più frequentemente un''asina girava, per mezzo di un braccio a giogo, la macina (mola asinaria, da alcuni detta pure "a maneggio"), anche se tale operazione poteva essere sostituita dalla forza di uno o due schiavi, spesso per punizione. Questo nuovo "mulino a forza animale" era del tipo "con macina a clessidra" (detto anche di tipo "pompeiano" per la sua grande frequenza a Pompei o di tipo "romano").
Esso presentava una macina inferiore o "fondo" fisso, formato di un cilindro desinente in un alto cono, e una macina superiore corrente o "coperchio" a duplice tronco di cono unito per la faccia minore come avviene con una clessidra, facendo così in modo che il tronco di cono inferiore avesse un'effettiva funzione di macina corrente, mentre il contrapposto (e sovrapposto) tronco di cono, rivolto con la "bocca" verso l'alto, assumesse la funzione di capiente tramoggia. Nel punto di incontro dei due tronchi di cono stavano delle sporgenze o degli incassi semplici o doppi (e allora contrapposti) di varia forma, in cui venivano bloccati, con vari mezzi, i bracci utilizzati (diritti o "a giogo") da uomini o animali per far ruotare la macina corrente.
Per evitare che le facce macinanti del fondo e del coperchio si toccassero, furono inoltre messi in atto dei particolari espedienti con funzione di distanziatori o "temperatoie". Un muretto orlato o altri espedienti opportunamente disposti tutt'intorno alla macina inferiore avevano il compito di raccogliere la farina macinata evitando dispersioni: di solito in un'ora si potevano avere circa 7 kg di farina. Sull'impiego della mola asinaria e della precedente mola trusatilis, fa chiaro riferimento Catone il Censore (234-149 a.C.) nella sua celebre opera De agri cultura (10,4) della prima metà del II secolo a.C. in un passo in cui, tra l'altro, subito dopo ricorda numerosi mortai e pestelli di vario impiego. Poco comunque sappiamo su alcune varianti come sulla "macina ispanica" (mola hispaniensis) ricordata ancora da Catone (agr. 10,4) o sulla "macina sospesa" (mola suspensa) che Columella (II 10.35) cita nel suo trattato sull'agricoltura romana come utilizzata nella Spagna Betica per frantumare la cicerchia da foraggio.