I principali meccanismi di funzionamento che portano alla macinazione sono in sostanza due: quelli del mulino a ruota orizzontale (o a ritrecine) e quelli del mulino a ruota verticale (e con quest’ultimo tipo vanno pure i mulini con “ruote pendenti” e quelli con “ruote galleggianti”).

 

Ruota idraulica orizzontale o “a ritrecine” (detto anche “previtruviano” o nordico o norvegese o scandinavo).

Nella sua concezione si tratta di un mulino elementare e semplice: una piccola ruota provvista di palette perimetriche inserite o calettate verso l’estremità di un palo regolarizzato viene posta orizzontalmente entro una corrente d’acqua, mentre una macina corrente viene collegata con l’altra estremità del palo; l’acqua fa girare la ruota e con essa la macina corrente. Questa macchina molitoria “a trasmissione diretta del movimento” è di facile intuizione ed è assai probabile che proprio per questo abbia preceduto il mulino a ruota verticale (è stata rinvenuta infatti nello Jutland e in altre terre nordiche ancora in età preromana, nonché in Cina). Tuttavia tale versione “primitiva” presentava vari difetti. La ruota doveva essere relativamente piccola e quindi era provvista di scarsa energia idraulica, finendo per essere incapace di far ruotare una macina di grandi proporzioni. Era poi troppo lenta perché a un giro della ruota corrispondeva un solo giro della macina. La stessa disposizione delle palette (in verticale od oblique) non garantiva una felice e sicura rotazione della ruota stessa. La sua verticalità obbligava poi ad una macinazione in verticale e sull’acqua, creando parecchi problemi di ordine statico e funzionale (grano e farina venivano a trovarsi “sopra” la ruota). In pratica l’unico vantaggio consisteva nel fatto che costituiva l’unico mulino possibile in zone aride o montuose, o comunque attraversate da corsi d’acqua a carattere torrentizio o di modesto volume, anche se per metterlo in opera era necessario ricorrere a opportune canalizzazioni o a riserve d’acqua che garantissero un’efficiente rotazione della ruota. La soluzione definitiva a tutti questi problemi si ebbe, a quanto sembra, nel corso del Medioevo, quando la primitiva ruota d’acqua fu gradualmente sostituita con il “ritrecine”.

 

 

Ruota idraulica verticale (detto anche storico o vitruviano e chiamato nel mondo greco-ellenistico hydralétes).

Si tratta di un mulino, assai evoluto e “a trasmissione indiretta”, che Vitruvio chiama hydraleta (ma forse si tratta di una moderna restituzione testuale) e che descrive chiaramente nel suo celebre trattato De architectura (10,5,2), dando per certo che era ampiamente noto nel I secolo a.C. In questo caso il meccanismo condizionante, che portava alla rotazione della macina, era costituito di due diversi elementi rotanti: una grande ruota con denti presso la sua circonferenza detta “lubecchio” e una piccola ruota cilindrica detta “rocchetto” o anche “lanterna” con tanti equidistanti fuselli perimetrici nel cui asse stava l’albero della macina rotante. Collegato e posto in rotazione attraverso un fuso assiale con la ruota d’acqua (situata in genere “fuori” dell’edificio molitorio), il lubecchio ad ogni giro imboccava con i suoi denti l’interspazio tra i fuselli, moltiplicando notevolmente le rotazioni del “rocchetto” e con esso quelle della macina corrente. I vantaggi di questa macchina molitoria erano notevoli: una grande energia idraulica che permetteva di impiegare macine di rilevanti proporzioni; la possibilità di far girare a volontà la macina corrente sulla macina dormiente, raggiungendo così il massimo dell’efficienza; la sua disponibilità a risolvere eventuali problemi costruttivi del mulino stesso; ed infine la sua plurifunzionalità capace di dare risposte diverse da quelle molitorie, sicché, dopo alcune opportune modifiche, al posto della macina potevano stare frantoi per le olive, gualchiere, “battiferri” o altro ancora (possibilità che peraltro si avevano pure, ma in grado minore, anche con l’introduzione delle forme più evolute di “ritrecine”)

TIPOLOGIA DELLE RUOTE IDRAULICHE VERTICALI

Le ruote erano in genere costruite impiegando quasi sempre il legno, anche se questo, soprattutto negli ultimi due secoli, è stato frequentemente sostituito dal metallo (soprattutto dal ferro), oppure si è data alla ruota una struttura mista con parti di legno e parti di metallo (in particolare le pale sono spesso in lamine di ferro per lo più incurvate). L’applicazione delle “pale” alla rispettiva corona è quanto mai varia e spesso dipende dalle tradizioni locali.

Quanto alle posizioni delle ruote rispetto all’acqua, possiamo avere:

“ruote verticali”, che possono essere azionate: “per di sotto” (in questo caso l’acqua colpisce le pale in basso facendo assumere alla ruota una rotazione antioraria); “per di sopra” (in questo caso la ruota si presenta quasi sempre “a cassette”, o per dirla con un termine cinquecentesco “a copedelli” o “copeélli” e l’acqua, convogliata da una doccia, colpisce in alto le pale “a cassetta”, facendo assumere alla ruota una rotazione con verso orario: l’energia rotante è dovuta sia alla spinta dell’acqua, sia al peso di questa nelle cassette e proprio per questo viene anche detta ruota d’acqua “di carico”); “di fianco” (in questo caso l’acqua finisce contro un fianco della ruota con l’aiuto di un distributore battente provvisto di direttrici, sicché la ruota assume una rotazione con verso orario rimanendo un po’ sommersa).

 

MULINI A MAREA

mulini a marea sono azionati dal movimento delle maree, particolarmente imponenti lungo le coste atlantiche. In pratica sono costruiti su una diga o “passonata” che chiude un’insenatura anche modesta formando un bacino con paratie presso il mulino. Si lascia entrare l’acqua portata dall’alta marea, badando a chiudere tutte le paratie quando la marea è massima. Si attende l’arrivo della bassa marea e, aperte le opportune paratie, si sfrutta il salto d’acqua tra il bacino e il mare, azionando così il mulino. Furono proposti ancora prima dell’anno Mille da un geografo arabo. Uno è ricordato a Dover in Inghilterra nell’anno 1086. Lungo le coste della Bretagna nel corso dei secoli ne furono messi in opera circa un centinaio (Madureri 1995). Alcuni furono costruiti anche nel Veneto lungo la costa adriatica, prendendo il nome di “aquimoli” (o aquaemolae): uno è ricordato a Forcona nel 1014, mentre nel 1044 un documento del monastero di San Giorgio della Pigneda ne ricorda altri due (Sebesta 1997).

Lo schema di funzionamento è rappresentato nelle due figure sottostanti che illustrano il flusso dell’acqua nelle fasi di innalzamento e di abbassamento delle maree.

 

Disegni tratti da "Storia della macinazione dei cereali" - Chiriotti Editori

MULINI NATANTI

I mulini natanti sono posti su galleggianti sia fissi che mobili dentro un fiume o su uno specchio d’acqua. Tra questi si distinguono quelli che sfruttano in vario modo l’energia idraulica creata dallo sbarramento di un ponte e dalla conseguente “corrente” che si forma tra due pile (proprio come a Roma aveva fatto Belisario nel 537 d.C.). Non esisteva infatti città medievale che non mettesse a frutto la presenza dei ponti urbani per ancorare almeno un mulino natante di solito a valle di una o più arcate. Tra i ponti romani utilizzati in età medievale e moderna a tale scopo possiamo ricordare, ad esempio, a Roma il Ponte Cestio, il Ponte Fabricio, il Ponte di Probo, o a Padova il Ponte Molino, oppure a Verona il Ponte della Pietra, ma ciò avveniva anche con numerosi ponti medievali o moderni, con un elenco che potrebbe continuare a lungo (Galliazzo 1995).

I mulini natanti potevano essere costituiti di un solo barcone con due ruote laterali (mulino natante "a doppio ingranaggio"), soluzione un po' precaria, oppure, assai spesso, erano formati da due natanti affiancati e tenuti a congrua distanza l'uno dall'altro da un'opportuna travatura, tra la quale veniva sistemata la ruota d'acqua (mulino natante "a ingranaggio semplice"). Sull'argomento si vedano nel Glossario le voci: sandone, "mulinassa", "mulinella".